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2 ottobre 2012

Il SAD come strumento di cooperazione. Uno scenario possibile?


Si può arrivare al riconoscimento del Sostegno a Distanza (Sad), da parte delle Istituzioni, come strumento rilevante della cooperazione?

Lo ha chiesto il ForumSaD al Forum della Cooperazione Internazionale, in corso a Milano e voluto dal Ministero della Cooperazione e Integrazione, in collaborazione col Comune di Milano e col Dipartimento di Cooperazione della Farnesina. Il sostegno a distanza, da anni, ha numeri, esperienza e una professionalità fortemente evoluta. Eppure in una concezione ormai anacronistica di cooperazione, ma ancora vigente, esso sembra messo da parte. Uno dei tanti figli minori di quella che viene considerata Cooperazione popolare, che sembra riunire tutte quelle forme di solidarietà diverse dalla Cooperazione internazionale che fa capo al Ministero degli Esteri.

Il ForumSaD, che apprezza la novità portata con questo grande evento, capace di riunire centinaia di operatori del Terzo Settore, mostra apprezzamento per le parole del Ministro Degli Esteri, in merito ad una riforma della legge della cooperazione. Una legge che il ForumSaD si augura possa rispondere ai cambiamenti intercorsi dal 1987, anno dell’approvazione dell’attuale norma, fino ad oggi.
Gradimento anche per le parole del Ministro alla Cooperazione Riccardi, che parla di un maggiore investimento nel Paese, in termini economici ma non solo, nei confronti della cooperazione tout court.

La realtà. Il sostegno a distanza rappresenta un impegno complessivamente maggiore di qualunque forma di cooperazione istituzionale a favore dell’infanzia, messa in campo attraverso i programmi e le risorse pubbliche, i progetti promossi dalla cooperazione governativa, finanziati alle Ong idonee, anche nei percorsi di cooperazione decentrata. In Italia sono circa 1,5 milioni le famiglie che sostengono almeno un bambino o una comunità a distanza. Ciò non genera solo ricchezza sul territorio del cosiddetto “sud del mondo”, ma rappresenta un capitale sociale anche per il nostro Paese: cittadinanza globale, educazione ai diritti nelle scuole, attivismo della società civile, attraverso i tanti sostenitori a distanza. Il Sad, come riporta una relazione preparatoria voluta da ForumSaD, La Gabbianella ed Elsad, tenutasi il 25 settembre a Milano, è un generatore di diritti umani: istruzione, salute, educazione ai diritti. Una risorsa a cui si possono collegare altri percorsi di cooperazione e altre azioni di sviluppo. Non più un aiuto diretto solo al bambino, limite che veniva riconosciuto al settore, ma da tempo intervento allargato alla comunità.

Quali le proposte per un riconoscimento del Sad come realtà di cooperazione? Il Fuori Forum del 25 settembre ha stabilito tre punti imprescindibili: dare voce al settore, dando accesso ai tavoli di definizione delle politiche di cooperazione; dare uno spazio coerente al Sad all’interno del processo di riforma della legge 49 del 1987; definire un percorso di idoneità, che permetta l’accesso alle risorse pubbliche per gli interventi di cooperazione sia in Italia che nell’ambito dell’Unione Europea.

Il percorso richiederà sicuramente alcuni passi obbligati. Il primo riguarda una riqualificazione del settore, anche attraverso risorse pubbliche utili allo scopo. È poi necessario promuovere una regolamentazione del settore, sulla scia di quelle che sono state le Linee Guida per il Sad prodotte dall’ Agenzia per il Terzo Settore, uno strumento concreto di grande rilevanza. Inoltre, stimolare la messa in rete del Sad con le Istituzioni è un ulteriore importante strumento per far crescere il settore attraverso l’impegno corale di tutti i soggetti che ne fanno parte.

2 luglio 2011


Il rapporto di Amnesty International 2011



L’America Lati
na continua ad essere la regione con il più elevato tasso di disuguaglianza sociale al mondo”. A questa conclusione è giunto il Rapporto 2011 di Amnesty International sullo stato dei diritti umani nel mondo, con riferimento al continente latinoamericano. Il rapporto sottolinea come gli ultimi 50 anni abbiano rappresentato per il Centro e Sud America un periodo di progresso, non solo dal punto di vista della crescita economica, ma anche nel rispetto dei diritti umani, con specifica menzione di questi ultimi in quasi tutti i quadri normativi dei paesi che compongono il continente.

Tuttavia, molte sono ancora le situazioni nelle quali la difesa dei diritti umani si ferma sulla carta, non riscontrando analoga tutela nella pratica. Di conseguenza, continua il rapporto, se i singoli governi e soprattutto le organizzazioni di base e la società civile possono considerarsi meritevoli del conseguimento di risultati positivi, si tratta ancora di un progresso lento e zoppicante.

Caratteristica specifica del processo di crescita sociale in America Latina è stata la spinta costante degli strati di popolazione più vulnerabili, gli stessi che sono stati, e in alcuni casi continuano ad esserlo, vittime di violenze e soprusi. È stato proprio lo sforzo di coloro che più hanno sofferto, che ha reso impossibile che i governi di riferimento potessero continuare ad ignorare la tutela dei diritti umani nelle rispettive agende politiche.

Il rapporto 2011 evidenzia come la difesa dei diritti umani continui ad essere un esercizio pericoloso in gran parte della regione, in particolar modo in Brasile, Colombia, Cuba, Ecuador, Guatemala, Haiti, Honduras, Messico e Venezuela, paesi dove gli attivisti sono vittime di omicidi, sparizioni, minacce e altre limitazioni delle libertà personali, in molti casi favoriti da sistemi giudiziari incapaci di assicurare alla giustizia i colpevoli. Emblematico il caso del Messico, dove la Commissione Nazionale per i Diritti Umani ha denunciato oltre 1600 casi di abusi compiuti da membri delle forze armate, senza che si sia registrato un solo caso di condanna definitiva.

Tra le popolazioni più esposte a violazioni ed ingiustizie, da sempre spiccano in America Latina quelle indigene. Le comunità native sono considerate un intralcio agli interessi economici di gruppi di imprese locali e multinazionali, arricchitisi oltre misura negli ultimi anni, grazie allo sfruttamento del suolo e all’avvio di mastodontici progetti di sviluppo, come miniere, dighe e vie di trasporto. Il 2007 avrebbe dovuto rappresentare un punto di svolta, grazie alla firma di diversi stati della Dichiarazione sui diritti delle popolazioni native. Ad oggi, però, nessuno degli stati firmatari ha varato alcuna norma di attuazione a tutela delle comunità colpite.

Dal punto di vista della sicurezza pubblica, tutti i paesi dell’America Latina vivono il problema della violenza organizzata, che trova nel fenomeno del pandillaje (associazioni di bande di strada) una delle proprie espressioni più tipiche. Ciò si manifesta in particolar modo in contesti urbani caratterizzati da estrema povertà, laddove più si fa sentire l’assenza dello stato e di valide alternative alla vita di strada. La rapidissima proliferazione di armi di piccolo calibro alimenta il problema ed i singoli governi hanno dimostrato scarso interesse ed impegno nella risoluzione del fenomeno. Alla violenza si è pensato di rispondere solo con repressione ed ulteriore violenza, anziché con programmi di assistenza ed inserimento sociale.

Corruzione e impunità sono ulteriori elementi che peggiorano il quadro della tutela dei diritti umani nella regione. Tuttavia, secondo quanto riportato da Amnesty International, negli ultimi anni enormi progressi sono stati raggiunti sotto questo punto di vista. Storiche ed esemplari sono state le sentenze di condanna dell’ex presidente argentino ed ex generale militare Reynaldo Bignone, dichiarato colpevole di omicidio e rapimento, così come dell’ex presidente peruviano Alberto Fujimori, attualmente in carcere per omicidio, corruzione e violazione dei diritti umani.
Il rapporto 2011 etichetta il continente americano come “luogo di lavoro pericoloso per i professionisti dei mezzi di informazione”. In Messico, Honduras, Brasile e Colombia, diversi giornalisti impegnati nella denuncia di casi di corruzione e violenza sono stati assassinati. La libertà di stampa e di espressione ha subito pesanti limitazioni in particolare in Venezuela, a Cuba e nella Repubblica Dominicana, dove alcune emittenti tv e radio sono state costrette alla chiusura.
In definitiva, nonostante i già sottolineati progressi compiuti su tutto il territorio latino, molti sono ancora i gruppi di popolazione che vedono negati i propri diritti più elementari. La mancanza di volontà politica e il prevalere degli interessi economico-commerciali sui diritti sociali, rendono l’America Latina una regione dove si registra quotidianamente un livello di abusi tutto’ora inaccettabile.

Fonte Unimondo



22 marzo 2011

Giornata mondiale dell'acqua: un bene comune da difendere


Senza acqua non
c'è dignità e non vi è via d'uscita dalla povertà”. Lo afferma il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon nel suo messaggio per la ‘Giornata mondiale dell’acqua’ promossa dalle Nazioni Unite che quest’anno ha come tema “Acqua per le città: rispondere alla sfida dell’urbanizzazione”. “L’urbanizzazione offre opportunità per una gestione più efficiente e un migliore accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici” – nota Ban Ki-moon. “Ma allo stesso tempo, nelle città i problemi si accrescono e stanno attualmente superando la nostra capacità di trovare soluzioni”.

Negli ultimi dieci anni – sottolinea Ban – il numero di abitanti delle città che non hanno accesso ad un rubinetto in casa o nelle immediate vicinanze è aumentato di circa 114 milioni e quello di coloro che non hanno accesso ai servizi sanitari di base è aumentato di 134 milioni. Tutto questo ha avuto un impatto estremamente negativo sulla salute umana e sulla produttività economica: le persone sono malate e inabili al lavoro”. Il segretario dell’Onu ricorda quindi che “nel mondo le persone più povere spesso non hanno altra scelta che comprare l'acqua da fornitori informali a prezzi superiori dal 20 al 100 per cento rispetto a quelli dei loro vicini più ricchi che ricevono l'acqua direttamente nelle loro case”. “Questo non è solo insostenibile, è inaccettabile” – conclude Ban Ki-moon.

Quest’anno è Città del Capo ad ospitare le iniziative più significative della giornata promossa dalle Nazioni Unite. Nella città sudafricana si stanno discutendo i temi relativi al diritto all’acqua e a servizi sanitari adeguati in un continente dove la spinta all’urbanizzazione non sempre è accompagnata da politiche adeguate aprendo la strada a una serie di sfide ancora da vincere. “Oggi - scrivono i promotori dell’iniziativa - una persona su due nel mondo vive in una città e il tasso di urbanizzazione è in continua crescita sia per il naturale aumento della popolazione sia per lo spopolamento delle campagne. Il 93% dell’urbanizzazione si sta registrando in paesi poveri o in via di sviluppo e nel 40% dei casi a crescere sono le baraccopoli: fino al 2020, ogni anno ci saranno 27 milioni di nuovi abitanti di slums”.

Nel 2025, secondo i dati del World Water Forum, circa 1,8 miliardi di persone vivranno in paesi o regioni colpite da una grave scarsità di acqua e due terzi della popolazione mondiale vivrà in condizioni di carenza estrema. Già oggi più di 884 milioni di persone nel mondo non hanno acqua potabile, mentre 2,6 miliardi di persone - sui 6 miliardi che popolano il pianeta – mancano di sistemi igienico-sanitari adeguati ricorda l’Unicef.

Non solo l’acqua non è disponibile a tutti, ma oggi la sua accessibilità è minacciata in numerosi paesi dai processi di privatizzazione. “L’acqua è il bene comune più prezioso, un diritto di tutta l’umanità. L’acqua appartiene a tutti e non può essere ridotta a una merce. Nessuno può assumerne la proprietà. Appartiene all’umanità intera! Ad ognuno di noi” – afferma Guido Barbera, presidente del Cipsi, il coordinamento di associazioni da anni attivo per chiedere l’acqua sia riconosciuta come un “bene comune” e un “diritto umano”. “L’acqua è tanto preziosa da meritarsi l’appellativo di ‘oro blu’ sui mercati finanziari, generare conflitti, influenzare migrazioni” – sottolinea il presidente del Cipsi che per la giornata odierna ha preparato un Dossier statistico sull’acqua.




25 gennaio 2011


Milioni di bambini nel mondo soffrono povertà, malattia, emarginazione


Nonostante siano passati più di 20 ann
i dalla Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite che sancisce i diritti dei bambini, sono ancora milioni quelli che continuano a soffrire la povertà, la malattia e l'emarginazione. Nel mondo sono 2,1 miliardi, circa il 35% della popolazione mondiale. Ogni anno ne nascono circa quasi 129 milioni.
Globalmente, 1 bambino su 4 vive in estrema povertà, in fam
iglie che hanno un reddito inferiore ad un dollaro al giorno. Nei paesi in via di sviluppo, 1 bambino su 3 vive in estrema povertà. Un bambino su 12 muore prima di aver compiuto 5 anni, in gran parte per cause prevenibili.
In tutto il mondo 250 milioni di bambini a
l di sotto dei 14 anni sono costretti a lavorare; fra questi, secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, sono 120 milioni i bambini tra i 5 e i 14 anni che lavorano a tempo pieno, cioè circa il 50%. Secondo alcuni dati statistici dell'Unicef, su 100 bambini nel mondo, 27 non hanno ricevuto alcuna vaccinazione contro le malattie, 32 bambini hanno sofferto di malnutrizione prima dei 5 anni, solo 44 bambini sono stati allattati esclusivamente al seno nei primi tre mesi di vita, 18 bambini non hanno accesso all'acqua potabile, 39 vivono in aree prive di impianti igienici adeguati, 18 bambini non frequentano la scuola e, di questi, 11 sono bambine; 25 bambini su 100 che iniziano a frequentare il primo anno delle elementari non proseguono fino al quinto anno, 17 bambini su 100 non sanno scrivere, né leggere, 11 sono bambine.

La speranza di vita media per i bambini nel mondo oggi è di 64 anni; nei paesi industrializzati è di 78 anni; nei 45 paesi maggiormente colpiti da HIV-AIDS è di 58 anni; in Botswana, Malawi, Mozambico, Ruanda, Zambia e Zimbabwe, i paesi più colpiti dall'HIV/AIDS, per i bambini la speranza di vita è di meno di 43 anni.
Metà di quelli che vivono nei paesi dell'Asia meridionale sono malnutriti. Un terzo dei bambini dell'Africa subsahariana non ha cibo sufficiente. Un bambino su tre in Albania, Uzbekistan e Tagikistan e uno su sette in Ucraina, Russia e Armenia è denutrito. In Vietnam il 17% dei bambini nasce sottopeso, mentre il 40% dei piccoli sotto i 5 anni risulta sottopeso a causa della malnutrizione.
Per quanto riguarda il grave fenomeno dei bambini di strada, nei paesi latino-americani sono circa 30 milioni i minori che lavorano per aiutare la famiglia di origine, e quelli che vivono per la strada, in forma stabile o temporanea, sono all'incirca 15 milioni. AIDS, conflitti, povertà sono le cause dell'aumento nel Continente africano. Cresce poi il numero degli orfani senza tutela, in Ruanda, dove la guerra civile ha reso orfani quasi 100.000 bambini, si contano ormai a migliaia i bambini e i ragazzi che lavorano e vivono sulla strada nella capitale Kigali. E così nella Repubblica Democratica del Congo, Burundi, Angola.

Queste statistiche sui paesi in via di sviluppo si affiancano a quelle, non meno preoccupanti, sulla povertà e lo stato di salute dei bambini nei paesi europei che dallo sviluppo stanno regredendo: quasi 18 milioni di bambini dei paesi dell'ex Unione Sovietica e del vecchio blocco dell'Europa dell'Est devono vivere con una sterlina e mezzo al giorno. Nella sola Mosca ci sono oltre 60.000 bambini senza casa; a Budapest sono tra i 10.000 e i 12.500, mentre nella sola Bucarest ce ne sono oltre 5.000. Ovunque la prostituzione minorile è un fenomeno legato alla vita di strada: i bambini che lavorano in night club, bar e ritrovi o che dormono per strada o alla stazione sono esposti al rischio dello sfruttamento sessuale.

Per quanto riguarda le malattie, nelle regioni più povere dell'Europa dell'Est e dei Balcani difterite, pertosse e tetano causano ogni anno molti decessi: in Albania, per esempio, poco più della metà dei bambini tra 1 e 2 anni è vaccinata contro queste malattie; si è poi registrato un aumento del 50% dei casi di tubercolosi dovuto, come nell'ex Unione Sovietica, al proliferare di forme resistenti ai farmaci per l'impiego di trattamenti terapeutici inadatti.

(Agenzia Fides)



13 gennaio 2011

Non solo Tunisi:
sono 80 i paesi a rischio alimentare



L’esercito è schierato a Tunisi, e la “guerra del pane” continua anche in Algeria. Ma i movimenti di protesta scatenati dall’aumento dei beni di prima necessità non sono solo un problema del Nord Africa. Olivier de Schutter, relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione ha detto che sono 80 i Paesi in situazione di deficit alimentare e che «oggi viviamo l’inizio di una crisi alimentare simile a quella del 2008».

Quella che è stata chiamata “rivolta del pane” si diffonde a catena da un centro urbano all’altro, anche attraverso il tam tam dei social networks, come twitter a facebook. Dalla Tunisia all’Algeria. Il 4 gennaio nel quartiere popolare di Belouizdad ad Algeri gruppi di giovani affrontano le forze di polizia. A innescare la miccia anche è anche qui la decisione del governo di aumentare del 20-30% i prezzi dei beni alimentari di largo consumo, come il pane, l'olio e lo zucchero. Dopo la capitale gli scontri scoppiano anche in altri centri algerini, tanto che il ministro del commercio abolisce la tassa su pane e alimentari, ma il provvedimento basta a riportare la calma.

Le cause. L’aumento del prezzo del cibo è uno dei fattori scatenanti, anche se non l’unico, della rivolta in Nord Africa, che potrebbe essere la spia di un disagio più ampio. La Fao già a dicembre parlava di una «situazione allarmante» a livello internazionale, che rischia di travolgere soprattutto le economie dei Paesi emergenti. Un dato è certo: l’Indice dei prezzi alimentari (Ffp) - che misura l'andamento mensile dei prezzi di un paniere che include tra l’altro cereali, carne, zucchero, olio di semi - ha toccato a dicembre i massimi storici.
«La siccità in Russia e Kazakisthan accompagnata dalle inondazioni in Europa, Canada e Australia, associate a incertezza sulla produzione in Argentina stanno facendo aumentare i prezzi dei cereali» avvisava già a dicembre l’economista Fao Abdolreza Abbassian.
È in atto una nuova crisi alimentare, simile a quella scoppiata nel 2008, che fu causata fra l’altro da un’ondata speculativa sui beni di prima necessità? La Fao è cauta, ma nei suoi rapporti non riesce a essere rassicurante: lo stesso Abbassian ha dichiarato che è «una follia» aspettarsi che i prezzi raggiunti a dicembre rimangano un picco insuperabile. Per Olivier de Schutter, relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all’alimentazione, l’aumento dei prezzi dei beni alimentari mette a rischio circa 80 paesi nel mondo che attualmente sono in una situazione di deficit alimentare.

Oggi, come nel 2008, sottolinea de Schutter, «non c’è un problema di penuria». Tuttavia, rileva, quando si accumulano informazioni come quelle legate ad incendi in Russia, alla canicola in Ucraina, a piogge troppo forti in Canada o altre notizie di questo tipo, spiega, «alcuni operatori di mercato preferiscono non vendere subito mentre gli acquirenti provano ad acquistare il più possibile: quando tutti fanno così i prezzi aumentano». A questo fenomeno, sottolinea, «si aggiunge l’aumento della produzione legata ai biocarburanti». Gli stock mondiali di cereali nel 2011, sottolinea de Schutter, «saranno pari a 427 milioni di tonnellate contro 489,8 nel 2009: questa perdita di circa 63 milioni di tonnellate per oltre i due terzi è imputabile agli Usa e all’Ue che puntano sui biocarburanti».


I rimedi. A rischio crisi alimentare sono soprattutto i paesi africani.«I paesi del Sahel», sottolinea de Schutter, «sono generalmente in una situazione di deficit alimentare perché producono spesso per l’esportazione e dipendono dal riso e dal grano per alimentarsi».

L’impennata dei prezzi del grano del 2008, però, qualcosa ha insegnato. «L’agricoltura è tornata a essere una priorità», dice de Schutter, «ma i fondi promessi tardano. Sui 20 miliardi di dollari promessi al G8 dell’Aquila nell’aprile del 2009 solo il 20% è stato sbloccato. È molto deludente».


Fonte: Unimondo

27 settembre 2010


Qualche pr
ogresso nella lotta alla fame
Nonostante qualche passo avanti, la situazione rimane inaccettabile


Nel 2010 per la prima volta in quindici anni si è invertita la tendenza: 98 milioni di individui sono
saliti sopra la soglia delle 1.800 calorie al giorno, ha detto la Fao con il suo linguaggio tecnico, tipico delle agenzie internazionali.

La fame, insomma, è calata: nel mondo ne soffrono il 9,6% di persone in meno rispetto all’anno scorso. Nel presentare il rapporto Sofi 2010, però, il direttore generale Jacques Diouf ha lasciato poco spazio all’ottimismo: «Con un bambino che muore ogni 6 secondi per problemi connessi alla sottoalimentazione, la fame resta lo scandalo e la tragedia di più vaste proporzioni al mondo» ha detto. «E questo è assolutamente inaccettabile».

Dando un’occhiata alle cifre degli ultimi anni, la buona notizia della Fao risulta ridimensionata. È vero che il numero degli affamati è diminuito, per la prima volta in 15 anni. Ma è anche vero che aveva avuto un’impennata dal 2006 al 2009. Il numero delle persone affamate da 873 milioni del 2006 è salito fino a 1,02 miliardi nel 2009, il livello più alto mai raggiunto. Colpa della crisi alimentare prima e della crisi finanziaria poi, che hanno colpito le persone più vulnerabili, soprattutto in Africa, facendole cadere nel circolo vizioso della miseria e della fame. Ora i nuovi dati della Fao segnano un miglioramento, che però, secondo la stessa agenzia Onu, è da attribuire alla crescita delle economie di Cina e India più che a politiche mirate.

Secondo il rapporto Sofi 2010, la regione con più sottonutriti resta l’Asia con 578 milioni di individui. Ma è l’Africa sub sahariana la regione con la proporzione più alta di affamati: il 30%, con 239 milioni di individui. All’interno del continente, poi, ci sono situazioni differenziate: nel biennio 2005-2007 Congo, Mali, Ghana e Nigeria avevano già raggiunto il primo obiettivo del millennio (sradicare la povertà estrema e la fame), e Paesi come l’Etiopia sono prossimi a farlo. Ma nella Repubblica democratica del Congo la proporzione dei sottonutriti è aumentata del 69%.
Gli otto obiettivi del millennio sono quindi più vicini rispetto a qualche anno fa? I progressi più incoraggianti arrivano sul fronte della salute materna. Secondo il rapporto "Trends in maternal mortality", in Africa sub-sahariana la mortalità materna è diminuita del 26% e in Asia il numero di decessi materni si stima sia sceso da 315 000 a 139 000 tra il 1990 e il 2008, con un calo del 52%.

Il progresso è notevole, sottolinea Unicef, ma il tasso di diminuzione è meno della metà di ciò che è necessario per conseguire l'Obiettivo di Sviluppo del Millennio di ridurre il tasso di mortalità materna del 75% tra il 1990 e il 2015, che richiederà una diminuzione annua del 5,5%; il calo del 34% rispetto al 1990 equivale ad una diminuzione media annua di appena il 2,3%.
Il risultato, tuttavia, segna un progresso evidente contro la mortalità materna, una piaga che affligge soprattutto i Paesi dove il sistema sanitario di base è precario e con poche risorse. Il 99% di tutti i decessi materni nel 2008 si è verificato nei paesi in via di sviluppo, con l’Africa sub Sahariana e l’Asia meridionale, che totalizzano il 57% e il 30% di tutti i decessi.

In vista del Summit Onu del 20 settembre un vasto gruppo di associazioni italiane ha lanciato le sue proposte nel dossier "Raggiungere gli Obiettivi del Millennio. Le raccomandazioni della società civile", indirizzandole al governo italiano e alla delegazione che andrà a New York.