24 giugno 2010




Haiti: diario di viaggio

Il nostro responsabile per i Caraibi, Domingo de Peña, è tornato ad Haiti con un altro carico di generi alimentari. Ecco il racconto del suo viaggio.



Quando giungo alla frontiera di Jimani, una delle tre frontiere tra la Repubblica Dominicana ed Haiti, è pomeriggio inoltrato. Sono partito a metà mattinata da Santo Domingo con il pick up di Solidaria carico di alimenti ed ora attendo di varcare l’arrugginito cancello che segna il confine tra due mondi: il benessere, pur se relativo, della Repubblica Dominicana e la povertà di Haiti.
Non vi è più la confusione delle settimane scorse quando, a qualunque ora del giorno e della notte, decine e decine di veicoli erano in attesa di passare dall’altra parte: vetture dell’ Onu, della Croce Rossa, di organizzazioni umanitarie, colonne di autocarri carichi di tende, medicinali, generi alimentari. Ora i veicoli davanti a me non sono molti e in pochi minuti, facilitato anche dal fatto che ho un carico di prodotti alimentari da consegnare, mi ritrovo in territorio haitiano, sulla polverosa e tortuosa strada di terra battuta stretta tra la montagna e il lago Azuel.

La meta di oggi non è lontana: la missione Jean Bosque di Fons Parisien, dove sono diretto, dista solo una trentina di chilometri e vi arrivo all’imbrunire, atteso da padre Wilnor, il superiore. Qui Solidaria sta sostenendo una parte degli alunni della scuola primaria della missione, molti dei quali rimasti orfani dopo il terremoto e con padre Wilnor dovrò definire gli aspetti organizzativi del programma di aiuto. In uno dei posti più poveri della terra, dove tutti i giorni si lotta per vita, questa missione è un’ isola felice per tanti bambini che possono sperare di sopravvivere alla povertà che li affligge dalla nascita, crescere, studiare e avere la possibilità di cambiare il proprio destino.


Passo la notte in missione e la mattina dopo, in compagnia di Eric, il missionario haitiano che mi indicherà la tendopoli in cui lasciare il carico di generi alimentari, mi dirigo a Porto Principe. In febbraio e in marzo ero venuto con altri carichi di alimenti acquistati da Solidaria. Le strade erano intasate dalle colonne di aiuti e per raggiungere la capitale avevo impiegato diverse ore ma ora vi è poco traffico, segno che la fase d’emergenza è terminata.
Alla periferia di Porto Principe iniziano a vedersi le prime tendopoli.


In tutta la città ve ne sono 347 – mi informa Eric – ed ospitano quasi 700 mila persone. La situazione sta migliorando ed anche i rifornimenti d’acqua sono assicurati”. Le affermazioni di Eric sembrano trovare conferma nelle numerose autobotti che vedo circolare per le strade, ora ripulite quasi del tutto dalle macerie degli edifici crollati, pur se rimane la dolorosa immagine di un paese devastato, dove tutto sembra provvisorio. Lungo le vie del centro cittadino, tra la polvere sollevata dai veicoli e il sole caldo, centinaia di bancarelle espongono tutto quello che è stato possibile estrarre dalle macerie e che nessuno ha rivendicato: ferro, stoviglie, materiale elettrico, pezzi di elettrodomestici, penne, libri...


Passata la situazione di estrema emergenza delle prime settimane, con morti dappertutto, feriti che non potevano essere curati, persone disperate prive di cibo e acqua, ora la vita ha ripreso una sembianza di normalità. Lungo le strade iniziano a vedersi alunni in divisa, banche e mercati hanno ripreso a funzionare e persino qualche ristorante ha aperto i battenti. Piccoli segni di rinascita attraverso cui si ha la sensazione di un ritorno alla normalità, anche se questo richiederà anni. Nella tendopoli dove lasciamo il carico, in pieno centro, passo tra funi stese con biancheria ad asciugare e teli di plastica dove si commercia, si cucina, si dorme, si gioca: la vita sta riprendendo lentamente i suoi spazi. Abbassandomi tra funi e teli, tra sguardi curiosi e bambini con occhi ridenti, vengo invitato ad entrare e sedermi.


Ascolto storie di lutti e sofferenze, e sono invitato a raccontare a mia volta chi sono e perchè sono venuto. Gli sguardi delle persone sono pieni di dignità, malgrado nella maggior parte di loro si riconoscano i segni del dolore e non può essere diversamente con oltre 250 mila vittime, 300 mila feriti e oltre un milione di senza tetto. La fortuna non ha favorito questo paese che, devastato da povertà, violenza politica e malgoverno, è colpito da disastri naturali come uragani, inondazioni e terremoti, i cui effetti sono aggravati anche dalla mancanza di un piano regolatore, tanto che la gente ha costruito come voleva e dove voleva.


A quattro mesi dalla catastrofe, i problemi da affrontare sono ancora molti. Non è possibile pensare ad una sistemazione definitiva per i senza tetto e le tendopoli rimarranno sino a che non inizierà la ricostruzione. Lasciato il carico di alimenti, mi soffermo davanti alle rovine della cattedrale, cimitero per decine di giovani che stavano provando il loro repertorio di canti, per l’arcivescovo e il vicario. Perchè tanti morti? Chiedo più a me stesso che non a Eric. “ Per tante cose" – mi risponde. "Soprattutto per la situazione sociale e per l’abbandono. In Haiti, la presenza dello stato è sempre stata precaria. Sino agli anni Sessanta non vi era molta differenza tra Haiti e uno degli altri paesi della regione, come per esempio l’Honduras o la Repubblica Dominicana, ma poi la dittatura ha distrutto questo paese. Negli anni Settanta la gestione economica è stata disastrosa e ha causato un grande esodo rurale. Negli anni Ottanta la cooperazione internazionale ha deciso che Haiti, il paese più povero dell’occidente, dovesse essere sostenuto ma l’aiuto, realizzato senza nessun dialogo con la società haitiana, non ha fatto altro che consolidare la nostra povertà. Se non si entra in contatto con la popolazione, non si potrà mai costruire nulla”.


È sera quando torniamo alla missione di Fons Parisien. Le cose iniziano lentamente a migliorare e adesso sta a noi non dimenticare e accompagnare questo popolo nel lungo e lento processo di rinascita, che ci auguriamo riesca a portarlo ad una qualità di vita che ogni persona merita.

Domingo de Peña